Immagina un piccolo teatro molto buio, con sedie un po’ scomode che non noti, perché le luci sono tutte su quelle tende molto rosse e su quel… maxischermo.
Uno schermo come lo usava il Signor G.? beh, si è messo dietro lo schermo proiettandoci la sua ombra mentre leggeva il giornale, ma… decisamente scadente omaggio. Come anche il resto d’altronde. Ma come si fa a rievocare in modo decente un mito? bisogna essere poeti.
E allora niente, spettacolo scarso, discorsi introduttivi che erano banali già dieci anni fa. Povero Signor G.
Ma…
Che mito ineguagliabile… lo guardavo su quello schermo, leggevo la sua espressione, cercavo di indovinare la tristezza dell’uomo di spettacolo che fa ridere il suo pubblico, cercavo di individuare quegli attimi di sorrisi finti che davano la scena delle storie che raccontava, e quel sorriso contagioso come quello di un bambino, quel viso riflessivo e tenero quand’era più vecchietto, sembrava sereno e soddisfatto delle sue grandi parole, come se “sì, è così davvero”.
http://youtu.be/ysNsxopm0VM
…i brividi, innanzitutto. Più pregnante della mia cara psicoterapia (certo, vale oggi perché oggi posso pensarci da sola, sennò era emozione allo stato puro e basta).
A tratti mi sarei commossa. C’era l’uomo multitasking affianco a me che riusciva a canticchiare, ballare sulla poltroncina alle canzoni più movimentate, e al contempo ripetutamente e continuamente refreshare il suo smartphone che era connesso alla pagina della Gazzetta dello Sport. 1- 0. 1-0. 1-0. 1-0. 1-0. 1-0. … 1-1. 1-1?!? sì, 1-1.
e allora la connessione ha risvegliato in me questa malattia per la condivisione. Perché a teatro, con il signore multitasking che si emoziona solo per la partita che NON sta vedendo (salvo poi battere le mani calorosamente verso lo schermo ad ogni fine pezzo)… a teatro a volte di imbarazza commuoverti. E allora vorresti condividere con qualcuno, e allora vorresti condividere sui social network, in silenzio, che solo i tuoi amici sappiano. E almeno il chek-in lo fai. E immagini di condividere questo video (quello di sopra), e immagini che per un attimo tutti i tuoi più cari amici delle varie epoche in cui vi siete posti, più o meno esplicitamente, domande sull’amore, immagini che siano tutti seduti in quel piccolo teatro, e che a un tratto tu possa sgomitargli leggermente per dire a qualsiasi di loro con uno sguardo d’intesa: “hai visto? è proprio la risposta che cercavamo affannosamente!”.
Poi pensi che magari su Facebook a quest’ora non ti caga nessuno, e ti domandi come vincere questa smania di condivisione. Perché non ci si può più commuovere a teatro, che peccato.
Non puoi sussurrare a nessuno che c’è una musica che ti pettina le corde dell’anima, come quella d’orchestra, o come quella solo strumentale, che ti esprime il disegno dell’universo e te lo fa percepire. Non puoi sussurrargli neanche che questa musica qui sono mani calde che massaggiano il tuo collo, e da lì tutto il tessuto nervoso, come fosse(fossi) una palla di plastilina.
Nel frattempo sul palco si demonizzavano le nuove tecnologie. Ma che importa.
io non lo so se questa resistenza ha un senso. o meglio, ha senso solo finché ci credi.
Beh, per me Il Signor G. è un mito, tra i più belli, un mito che è vissuto per davvero.